martedì 23 luglio 2013

Breve nota sulla differenza tra agire e fare di Fabio Gabrielli

La nota distinzione aristotelica tra “agire”, dare un senso, una direzione di marcia al proprio stare al mondo, e “fare”, limitarsi ad eseguire un compito, ci interpella in tutta la sua portata esistenziale, in un’epoca dove l’abulia delle coscienze, l’infiacchimento della meditazione, la rottamazione delle idee appaiono sempre più pervasive e inquietanti.
L’ambiguità tipica della modernità si manifesta a tutto tondo nelle luminose scoperte scientifiche, nelle grandi innovazioni tecnologiche e, di contro, nel pensiero unico, monocorde, nella comunicazione invisibile poiché abitata da linguaggi sempre identici, nella ideazione rattrappita, nello sguardo ripiegato su se stesso poiché privo di tensione contemplativa.

Da qui l’urgenza di recuperare l’agire come progettazione nel mondo e per il mondo di un’articolazione di senso compiuta, di un percorso della coscienza alternativo a quello serializzante indotto dal sistema dei bisogni che seduce e delude con meccanica, implacabile ripetitività. L’agire, tuttavia, diviene progetto di senso solo se lascia spazio alla dialettica tra silenzio e dubbio. Il silenzio, come pausa della parola che indaga se stessa, come temporaneo congedo dal quotidiano per rivisitarlo con occhi nuovi, rinvia da sempre al dubbio. La sospensione della parola e della visione comune, standardizzata, apre, infatti, fecondi squarci dubitativi su quello che acriticamente accatastiamo nei nostri pensieri e nelle nostre azioni, o meglio nel nostro “fare”, nel nostro assolvere in modo impersonale ad un compito.

Il dubbio non è uno stile di vita, bensì un metodo critico di discernimento, uno spazio pre-veritativo che permette al soggetto, dopo la messa in discussione “silenziosa” delle diverse alternative, dei diversi paradigmi di vita, di compiere una scelta veritativa vincolante, in base alla quale determinare il senso ultimativo del proprio esistere qui e ora.
 
 
 
 
Ora, l’uomo venendo all’essere si determina originariamente come “azione” perché viene a trovarsi entro uno spazio aperto di possibilità, anzi egli stesso è l’apertura di questo spazio. Una volta posto in questo spazio, l’uomo deve inevitabilmente orientarsi in esso […] pena il perdersi.
Salvatore Natoli, Il buon uso del mondo. Agire nell’età della tecnica, Mondadori, Milano 2010

 

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