Scritti

CURIOSITA’, INTERESSE, ASCOLTO
di antonio zanaboni

La nostra terra sembra diventata improvvisamente piccola, non soltanto perché tra pochi anni gli esseri umani che la abiteranno saranno così numerosi da trovare difficoltà perfino a reperire un bene prezioso come l’acqua, ma anche perché le distanze si sono drasticamente ridotte.
Intraprendere un viaggio verso gli Stati Uniti o il Giappone solo ottanta anni fa era un’impresa non priva di rischi che durava diverse settimane, roba da ricchi con tanto tempo e molto denaro a disposizione oppure da poveri con parecchia fame e viva disperazione.
Oggi i mezzi di trasporto supertecnologici e potenti ci consentono di arrivare in ogni parte del mondo in meno di quarantotto ore, superando a novecento chilometri orari frontiere, catene montuose, deserti, oceani e condizioni atmosferiche avverse.
Chi non si vuole prendere il disturbo di preparare i bagagli e salire su un aereo o su un treno, può sempre viaggiare virtualmente standosene comodamente seduto sulla poltrona di casa ed ammirare nello schermo del proprio computer o della TV paesaggi e città lontane, ascoltandone i rumori e le musiche.
Il web ci offre la possibilità di far entrare un intero museo nella nostra casa, muoverci nei suoi corridoi a colpi di mouse, leggere le biografie degli autori e contemplare i capolavori esposti ammirandoli molto più da vicino di quanto non potremmo fare dal vero.
Il mondo sembra piccolo se non alziamo gli occhi dal nostro computer, dal giornale o dai documenti che abbiamo tra le mani, diventa addirittura insignificante se ci spostiamo sempre di fretta, guardando ciò che ci circonda senza vederlo e dimenticando che la realtà di tutti i giorni è ricca di avvenimenti e incontri sorprendenti ed entusiasmanti, dei quali spesso nemmeno ci accorgiamo.
Tutto torna ad essere sconfinato ed eccitante quando spalanchiamo gli occhi e come da bambini ed iniziamo a guardarci intorno con curiosità, recuperando il senso della sorpresa e della meraviglia, non solo per i grandi avvenimenti, ma anche per quelli quotidiani come un sorriso, uno sguardo, la sfumatura di un colore della natura o un suono piacevole.
Essere curiosi è dunque una buona qualità da sviluppare, ci aiuta ad aprirci al mondo e agli altri?
Erich Fromm descrive così gli individui curiosi:
“La persona curiosa è fondamentalmente passiva. Vuole conoscere e provare sensazioni e non può mai essere sazia, poiché la quantità di informazioni sostituisce la profonda qualità della conoscenza. La curiosità, per sua natura, è insaziabile perché, a parte la sua maliziosità, non risponde mai al quesito ‘chi è l'altro?’".
Se vogliamo entrare in contatto pieno con il nostro tempo e le persone che vi transitano, anziché curiosare superficialmente possiamo coltivare l’interesse.
Interesse significa etimologicamente ‘essere fra’, cioè dischiudersi agli altri con pienezza emotiva e di sentimenti.
Ecco quattro condizioni utili per “vivere ed aprirci pienamente agli altri”:
Prima di tutto ricordarsi di non dare per scontata la difficoltà e l’ambivalenza della comunicazione, non renderla banale come se fosse una cosa normale ma vivere e dare valore al miracolo dell’incontrarsi e del capirsi.
Quando ci relazioniamo con una persona oltre a scambiarci vocaboli, pensieri ed emozioni, entriamo in contatto con il suo mondo, ci avventuriamo in un terreno complesso in parte inesplorato e spesso sconosciuto addirittura a chi lo abita.
Non dimentichiamoci che l’altro è differente da noi, ha una visione delle cose non sempre sovrapponibile alla nostra, probabilmente guarda la realtà attraverso le personalissime lenti del suo vissuto, delle sue conoscenze dei suoi valori e delle sue convinzioni.
Alleniamoci ad essere flessibili, a metterci in discussione prendendo in considerazione il punto di vista del nostro interlocutore e sforzandoci di capire le sue ragioni.
Il secondo fattore è legato alla nostra capacità di osservare l’altro in modo intenzionale, cogliendo le variabili verbali e non verbali, il grado di congruenza del messaggio, le parti che si contraddicono ma, soprattutto, comprendere come l’altro percepisce in quel momento la relazione con noi.
Spesso durante un incontro utilizziamo solo il canale uditivo, dimenticandoci che la maggior parte dei messaggi ci viene trasmessa con altre modalità.
Se proviamo ad ascoltare l’altro non solo con le orecchie, ma anche con gli occhi ci accorgiamo presto che il corpo del nostro interlocutore comunica continuamente e ci invia una quantità enorme di informazioni provenienti dal profondo e quindi più genuine e spontanee che possiamo decodificare ed incrociare con le parole che sta pronunciando, per meglio comprendere il suo pensiero.
Aumentiamo la nostra sensibilità, esercitandoci per qualche minuto al giorno ad osservare i segnali non verbali delle persone che s’incontrano e interagiscono in occasione di eventi sociali, nei luoghi di lavoro o nelle sale d’attesa. Senza ascoltare le loro parole analizziamo il linguaggio del corpo e proviamo ad associarlo al sentimento che stanno esprimendo come la rabbia, la felicità, l’impazienza o il desiderio.
Nel one-to-one abituiamoci a guardare attentamente il nostro interlocutore, le sue espressioni, il suo sguardo, i suoi gesti, la sua postura, i suoi piedi, a cogliere le sfumature nel tono di voce ed i cambi di ritmo dell’eloquio, utilizziamo questa grande quantità di messaggi che ci invia per meglio comprende il significato più intimo della sua comunicazione.
Il terzo elemento è sforzarsi di non dare soluzioni alle persone che ci stanno raccontando un loro problema, una loro preoccupazione o la giornata appena trascorsa, poiché spesso hanno solo bisogno di sfogarsi o di chiarirsi le idee.
Lasciarli parlare, inviando loro segnali d’ascolto, li aiuta a visualizzare il problema da un altro punto di vista, fornisce loro una prospettiva differente facendo, a volte, germogliare intuizioni e alternative creative.
Spesso la soluzione del problema è già dentro di loro e parlare con qualcuno che sa ascoltare davvero è il primo passo per trovarla.
Se questo prodigio accade, possiamo aiutare il nostro interlocutore a trasformare le idee risolutive in azioni concrete formulando delle domande che lo aiutino a costruirsi un piano d’azione riguardante le cose da fare, quando iniziare a farle, le scadenze da rispettare, le persone da coinvolgere e le risorse da reperire.
Addestriamoci a non interrompere, a non dare soluzioni pensando al nostro vissuto ma stimoliamo il nostro l’interlocutore ad osservare la situazione che ci sta illustrando da un altro punto di vista, chiediamogli di immaginare quale consiglio darebbe a una persona che sta esponendo un problema simile al suo.
La quarta, ultima e forse più importante condizione è saper ascoltare profondamente le persone che incontriamo tutti i giorni lungo il cammino della nostra esistenza, cosa non facile poiché la strada del quotidiano è molto rumorosa, spesso troppo affollata, qualche volta buia e molti vi transitano a gran velocità.
Si è soliti pensare che ascoltare sia un’azione spontanea che non necessita di formazione e di pratica per essere esercitata in modo eccellente.
E' davvero così?
Quanti particolari ricordiamo di un racconto che abbiamo ascoltato due giorni fa da un collega o da un amico?
Ci capita di dimenticarci il nome di una persona che si è appena presentata, pronunciandolo chiaramente solo pochi istanti prima?
Quante volte, mentre parliamo, abbiamo la sensazione che la mente del nostro interlocutore sia altrove anche se il suo corpo e le sue espressioni dimostrano attenzione ed interesse?
L’ascolto pieno si realizza solo quando il focus dell’attenzione e del coinvolgimento è totalmente sul nostro interlocutore in tutta la sua persona, teniamo sempre a mente che al centro della conversazione non ci siamo noi ma c’e lui.
Ascoltare in modo profondo chi entra in contatto con noi significa anche sintonizzarsi con le sue emozioni ed i suoi sentimenti, sentendo la sua gioia e il suo dolore come lui li sente e vivendoli come se noi fossimo felici o addolorati.
Significa mettere da parte le nostre convinzioni e i nostri valori personali ed entrare nel mondo dell’altro senza pregiudizi e preconcetti, ipotizzando che l'altro ha ragione a priori, sposando le sue obiezioni senza cercare a tutti i costi di smontarle e facendoci chiarire bene il suo punto di vista.
Come dicono gli inglesi “walking a mile in his shoes”, cammina per un miglio nelle sue scarpe, senti quello che sente lui nei tuoi piedi, nelle tue gambe nella tua mente e nel tuo cuore.
Significa sgombrare la propria mente da qualsiasi pensiero, zittire le voci che si sviluppano dentro di noi scollegandoci dal qui ed ora, non ragionare sulla cosa da dire quando toccherà a noi parlare, allevare la nostra pazienza resistendo alla tentazione di interrompere e rispettare i break di riflessione della persona che ci sta parlando.
Significa infine confermare la nostra corretta comprensione dell’informazione attraverso la ripetizione sintetica del messaggio.
Formulare domande di approfondimento che sgombrano il campo da possibili equivoci e fraintendimenti, ci aiuta a raccogliere altre informazioni che spianano la strada alla nostra risposta.
Tutto così semplice? Sì.
Tutto così facile da mettere in pratica? Non proprio.
Conviene comunque provarci poiché interessarci all’altro e ascoltarlo profondamente è uno dei migliori regali che possiamo fargli. Come tutti i doni preziosi è costoso e impegnativo, ma proprio per questo ci lega e stimola la sua riconoscenza, ripagandoci spesso con la stessa moneta.




RIPARTIRE
di antonio zanaboni

Quando è iniziato il ritorno?
Forse quando ho abbracciato con gli occhi la porta del faro di Fisterra, calpestando come i pellegrini fanno da mille anni gli ultimi scogli della terra conosciuta, quello è stato l’inizio del rientro nella realtà.
Due parole riecheggiavano nel cielo della Galizia portate dal vento della storia: “Fin del Camino”.
Il rientro durato qualche giorno è stato pigro ed ovattato per dare al vissuto l’occasione di depositare e lavorare in profondità.
La profondità è una costante del Cammino, le emozioni cosi come i timori di quel pezzo di vita sono profondi; la stanchezza lo è, subdola e pesante; anche le relazioni con gli altri lo sono, già intime dopo poche ore e immenso è il rapporto con la natura.
Tutto sprofonda in un abisso che non pensavo tanto vasto e riemerge come lava di un vulcano, improvvisa, potente e lenta livella tutto ciò che trova.
Alla fine mi ritrovo in uno stato di consapevolezza che riempie.
Tornare da un’esperienza cosi imponente è un momento speciale e delicato, parlarne è mettersi a nudo. C’è un passato recente che ancora fa svolazzare le farfalle nella pancia, c’è un velo di tristezza per una cosa che so non potrà ripetersi, c’è la velocità del mondo alla quale mi ero disabituato camminando per un mese intero a poco più di 3 chilometri l’ora e poi ci sono le persone che trovo, che sapevano o che hanno saputo di quei 912 chilometri fatti passo dopo passo.
Quando le incontro mi chiedono perché e come, ma sono domande alle quali non riesco a rispondere. Potrei sempre cavarmela con le parole del mio amico francese Jean Paul dicendo “Perché no?”. Potrei dire che la mia vita è quella cosa lì, lasciare le certezze e farsi invadere dai dubbi, lasciare le comodità e arrangiarmi con il poco oppure che amo pensare al mio limite e tentare di superarlo, ma poi lascio perdere e rispondo semplicemente che mi piace esplorare e scoprire.
Parole brevi pronunciate nella speranza che chi le ascolta possa leggere nei miei occhi almeno un piccolo frammento delle enormi emozioni che ho vissuto in quei giorni, che mi hanno inondato e cambiato, augurandomi che quella luce possa illuminare anche loro e fargli perdere l’indecisione nell’affrontare esperienze pure e totalizzanti, trovando da qualche parte il coraggio per dire che si può fare, che si può correre il rischio, che non si deve rimandare oltre.
Al rientro il mio volto è stato per una decina di giorni la testimonianza dell’accaduto con quella barba folta che mai avevo avuto, segno tangibile, tatuaggio di un’esperienza che occorre avere il coraggio di testimoniare per dare speranza e dimostrare che i limiti sono solo dentro di noi e si nutrono dei nostri dubbi e delle nostre paure.
Quando agiamo trasformando i nostri “mi piacerebbe fare” in “ora faccio” tutto diventa possibile e ci accorgiamo che camminare per 900 chilometri è la cosa più naturale del mondo, si tratta solo di mettere un piede davanti all’atro come gli uomini fanno dalla notte dei tempi.
Lasciare le certezze e imboccare strade nuove e sconosciute ci rimette in contatto con le nostre potenzialità e ci trasforma in persone migliori che sono in grado di dare agli altri speranza e felicità creando quella spirale virtuosa che include e si espande nel mondo.
Sono tornato, ed è già ora di ripartire.

Cammino di Santiago, Agosto Duemilaedodici    


 
Energia+Empatia=Leadership al quadrato
di antonio zanaboni

 Spesso sentiamo dire che un imprenditore, un manager o un politico hanno carisma o che una persona è un leader naturale.
Perché li riconosciamo tali?
E’ difficile rispondere a questa domande in modo razionale, molto è frutto di sensazioni che non riusciamo a spiegare, tutti noi abbiamo una naturale propensione a farci un’idea immediata degli altri semplicemente osservandoli e ascoltandoli.
E’ una competenza che il nostro cervello ha acquisito migliaia di anni fa, quando ancora la parola non esisteva ed occorreva riconoscere gli interlocutori amici dai potenziali nemici interpretando il loro linguaggio del corpo, a quei tempi un’esitazione o un errore poteva costare la vita.
Il successo del leader non è solo frutto di competenze specifiche in un determinato settore ma è direttamente proporzionale alla sua capacità di trasmettere messaggi ed emozioni, sia all’interno che all’esterno del gruppo e non solo utilizzando le parole ma soprattutto servendosi di altri linguaggi.
Gli esperti di comunicazione sostengono che il 60% dei messaggi passa attraverso il linguaggio del corpo - pensiamo a quanto sono importanti le espressioni facciali, i gesti, la postura - il 30% dal linguaggio è paraverbale vale a dire il tono ed il ritmo della voce e solo il 10% riguarda le nostre parole.
Alla luce di ciò che abbiamo appena letto, come possiamo allenare la nostra leadership migliorando i risultati e favorendo il team building?
Ci sono due componenti che meritano un’attenta riflessione e che possiamo osservare e sentire: “l’Energia e l’Empatia”.
Il dizionario della lingua italiana definisce l’energia come il momento dell’atto operativo; uso attivo della forza; la potenza dell'organismo; l’aumento dell'azione vitale di una parte del corpo. La parola deriva dal greco   νέργεια  (energheia), termine usato da Aristotele nel senso di azione efficace, composta da en, particella intensiva, ed ergon, capacità di agire.
Il leader energico viene percepito come forte, potente, concreto e vitale.
Il suo linguaggio del corpo è solido, fermo, proteso verso l’ascoltatore, il  volume della sua voce è alto ed il ritmo sostenuto.
L’energia è la capacità del leader di penetrare nel mondo, di scuotere e di accendere l’entusiasmo nelle persone che lo ascoltano e che lo seguono, possiamo rappresentare il capo energico come un condottiero che combatte insieme alle sue truppe, marcia in testa, da l’esempio e si espone in prima persona.
Spesso diventa il parafulmine delle tensioni che investono il team dall’esterno, difende i suoi collaboratori e li protegge dai timori che potrebbero spaventarli o demotivarli eccessivamente.
E’ molto focalizzato sull’obiettivo e sul risultato, anche le sfide più estreme sembrano facilmente alla sua portata.
Se il leader è troppo sbilanciato verso l’energia è spesso un accentratore incapace di fidarsi degli altri ed è costretto ad esercitare un controllo opprimente e demotivante.
È convinto che la realtà che vede sia l’unica possibile, con il risultato di radicalizzare la comunicazione rischiando pericolosi scontri frontali.
Il clima che si respira all’interno del team sarà probabilmente ricco di tensioni ed esageratamente competitivo ed individualista, anche la creatività risulta castrata, con uno scarso afflusso di informazioni ed idee dal basso verso l’alto.
Il sentimenti dominanti nell’équipe sono la paura e l’infelicità, le persone non agiscono perché motivate ma perché temono le conseguenze personali negative.
Ne risulta una conduzione autoritaria e manipolatoria che può avere successo per brevi momenti di crisi ma che, se protratta per molto tempo procura infelicità, ansia e ribellione.
Il dizionario ci suggerisce che l’Empatia è la capacità di comprendere appieno lo stato d'animo altrui, sia che si tratti di gioia, che di dolore.  La parola deriva dal greco "εμπαθεία" (empatéia, a sua volta composta da en-, "dentro", e pathos, "sofferenza o sentimento) sentire dentro, sentire come l’altro sente.
Il leader empatico viene percepito come  elegante, armonico nei movimenti, costante, attrattivo ed equilibrato.
Il suo linguaggio del corpo è aperto e accogliente, il suo tono è caldo e pacato ed il ritmo regolare, quasi ipnotico.
Sa ascoltare empaticamente e mettersi nei panni del suo interlocutore comprendendo i suoi sentimenti e le sue necessità più profonde.
E’ sensibile e sa interpretare gli stati d’animo dei singoli e delle collettività trasformandoli in visioni positive per un futuro del quale tutti vorrebbero essere protagonisti ed edificatori.
Fa leva sui sentimenti e converte la visione in carburante per la motivazione, ogni compito diventa una causa, ogni azione si trasforma in un atto eroico, ogni obiettivo diventa un sogno. 
Ha una naturale propensione ad attrarre a se i talenti migliori, costruendo un team leale che si alimenta di sentimenti positivi, diventando modello per il mercato ed i concorrenti.
Condivide le scelte e le decisioni facendo sentire le persone parte di un tutto, stimola la creatività e le idee innovative.
Se prevale l’empatia il leader è certamente amato e compreso ma non da sicurezza, risulta timido ed incerto nella difesa del gruppo e dei suoi ideali  e dopo qualche tempo perde la stima dei collaboratori.
Il clima che si respira all’interno del team è spesso eccessivamente rilassato ed i tempi rischiano di dilatarsi oltre il possibile.
Le persone ne parlano come un ottimo coordinatore, una brava persona ma non come un capo al quale affidarsi, non lo riconoscono un leader dal quale ci si aspetta sintesi efficaci del pensiero del gruppo e decisioni rapide nei momenti difficili.
Il rischio principale è quello della ricerca da parte dei componenti della squadra di un leader naturale che sappia difendere (anche in modo errato) i loro diritti con conseguente perdita di potere e confusione dei ruoli.
Osserviamo la nostra modalità gestionale, se siamo eccessivamente sbilanciati sull’energia proviamo ad ascoltare di più, a sorridere, a delegare alcuni compiti e a condividere maggiormente i progetti.
Se siamo squilibrati verso l’empatia proviamo a decidere con maggiore  autonomia, dire qualche volta no e definire obiettivi e tempi più concreti.
Saper dosare in egual misura Energia ed Empatia è il primo passo per diventare dei Leader ancora più autorevoli, riconosciuti e seguiti, capi  che sanno far nascere negli altri il desiderio di far parte di una società alla quale tutti vorrebbero appartenere.


PERCHE SI CORRE?
di antonio zanaboni

Sera di metà novembre, ormai è buio e una leggera foschia sta iniziando a comparire ai margini della strada, non fa molto freddo per essere autunno inoltrato, ci sono circa 9 gradi. Inizio il mio allenamento sempre dallo stesso punto, la linea bianca e sbiadita dello STOP all’angolo della piazza, il cronometro parte e le gambe si mettono in moto. Preferisco correre nei campi ma mi piace farlo anche la sera per strada, con le diverse colorazioni di luce dei lampioni che cambiano tinta alla realtà, i frenetici fanali delle macchine, le finestre accese dietro le quali probabilmente qualcuno sta già cenando ed il buio di alcuni tratti nei quali gli occhi si concentrano per indicare ai piedi dove appoggiare.
In quel panorama psichedelico spuntano ogni tanto altri esseri come me, cappello, guanti, pantaloncini, pettorali fluorescenti e segnalatori luminosi. Muovendo velocemente le gambe a volte mi vengono incontro, altre mi sorpassano, ogni tanto li sorpasso io e quando si arriva a distanza ravvicinata ci si saluta con la mano o accennando un affannato “ciao”. Non è che si conosce, ci si saluta e basta.
Lo scrittore Erri Deluca parla così degli americani che si allenavano e correvano, tra gli italiani increduli, dopo lo sbarco alleato alla fine della seconda guerra mondiale:
“Correre per noi di Napoli era un verbo serio… uno di noi si buttava a correre per scappare da un terremoto, da un bombardamento. Correre senza essere inseguiti era bollire l’acqua senza avere la pasta… “
La domanda che mi frulla in testa è sempre la stessa, perche si corre? Senza essere inseguiti o scappare da un pericolo, intendo.
Si corre per noia e per passare il tempo?
Ho escluso subito questa ipotesi, per noia si guarda la TV dal divano di casa, si naviga in internet o si cammina dentro un centro commerciale riscaldato d’inverno e raffreddato d’estate.
Si corre per moda?
Vediamo attori famosi e politici con tanto si scorta galoppare sudanti nei parchi delle città e vogliamo imitarli. Ma la moda passa e se lo si facesse solo per quello la corsa sarebbe già archiviata come uno sport superato da guardare in vecchi filmati d’epoca in bianco e nero.
Si corre per salute?
Questa tesi sembra più convincente, studi recenti dimostrano che camminando spediti o correndo lenti per qualche chilometro al giorno si eliminano i chili di troppo, si tonificano i muscoli, si fa del bene al cuore, si abbassa la pressione arteriosa e si favorisce la diminuzione del colesterolo cattivo. Ma cosa c’entra tutto ciò con il massacro della preparazione alle lunghe distanze, con il corpo che si logora poiché non è concepito per correre quei 42.195 metri nel tempo più breve possibile? Insomma il fitness qualcosa c’entra ma non si corre solo per salute.
Si corre per socializzare e fare nuove amicizie?
Certo praticare il podismo ci mette in contatto con gli altri in modo paritario, scarpette e pantaloncini abbattono le barriere sociali. Camminare insieme o vivere l’avventura della preparazione ad una competizione cementa le relazioni creando amicizie durature ed autentiche che si conservano per tutta la vita. L’amicizia è forse l’effetto collaterale più importante di questo sport. Ma come mai spesso s’incontrano persone che sgambettano sole, c’è dell’altro oltre la socializzazione?

Forse si corre anche per necessità, perché lo facciamo da quando, milioni di anni fa, inseguivamo le prede per cibarci e continuare a farlo ci mette in relazione con la parte più profonda di noi, facendo comunicare ogni singola parte del nostro corpo con la nostra mente. Ci fa entrare in contatto con la sofferenza, con la testa che dice basta ed il corpo che passo dopo passo la sfida, per dimostrarle che invece si può, si deve.
Correre ci da la possibilità di vivere la nostra avventura quotidiana, con le sue incertezze, le sue paure e le sue eccitazioni, liberando il nostro spirito bambino che vuole stupirsi, divertirsi e gioire incurante delle condizioni meteo avverse, della fatica e del tempo che passa.
Forse corriamo anche per mettere da parte, almeno per un po’, l’uso della ragione e del buon senso che spesso ci consigliano di non farlo.
E tu perché corri?

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