venerdì 14 dicembre 2012

Di che stretta sei?

Da sempre una decisa e amichevole stretta di mano è stata considerata fondamentale per le relazioni professionali e non solo.   Ora uno studio scientifico lo conferma.

C'E' QUELLA del "pesce morto", quella "tritaossa", quella "olandese" o quella "della chiave": sono i più diffusi modi di stringere la mano, gesto che ciascuno di noi compie almeno 15.000 volte nel corso della vita. Da sempre una decisa e amichevole stretta di mano è stata considerata fondamentale per le relazioni professionali e non solo. Persino nell'antichità, aveva un valore simbolico elevato perché serviva a dimostrare che non si avevano armi tra le mani. Ora uno studio che sarà pubblicato a dicembre sul  Journal of Cognitive Neuroscience dimostra in modo scientifico che la stretta di mano è davvero cruciale per la prima impressione tra due individui che non si conoscono. "Grazie ai nostri risultati" ha spiegato Sanda Dolcos del Beckman Institute "ora le persone possono prendere consapevolezza del potere che ha una semplice stretta di mano perché abbiamo visto che non solo rafforza l'impatto positivo dell'approccio tra due persone che non si conoscono, ma diminuisce anche quello negativo".
I risultati. I ricercatori hanno esaminato 18 volontari di entrambi i sessi che hanno guardato e votato dei video che mostravano degli sketch ambientati nel mondo del lavoro, ma senza parole. Sono stati presi in considerazione i risultati della risonanza magnetica funzionale, ma sono state osservate anche la conducibilità della pelle (per esempio, quanto la mano è sudata) e le reazioni comportamentali. I risultati hanno mostrato una maggior propensione all'approccio attivo piuttosto che la tendenza ad evitare i contatti nell'area dell'amigdala e del solco temporale superiore, collegati ad una valutazione positiva della stretta di mano. Inoltre, il nucleo accumbens (una piccola regione ricca di dopamina) che ha un ruolo fondamentale nel comportamento emotivo, nel dolore e nel piacere, ha mostrato una maggior attività durante le scene in cui si mostrava una stretta di mano rispetto a quelle in cui il saluto mancava. Secondo i ricercatori, questa è la dimostrazione scientifica di ciò che fino ad ora sapevamo solo a livello intuitivo.
Di che stretta sei? "Il tipo di stretta che diamo dipende dal rapporto che ciascuno di noi ha con l'altro: c'è chi ha il ruolo dominante e chi, invece, è un tipo sottomesso" spiega Davide Algeri, psicologo di Milano specialista in Terapia Breve Strategica Sistemica. Chi tende a dominare, in genere ha una stretta da "schiaccianoci", cioè forte, molto decisa e in alcuni casi appoggia anche l'altro braccio sulla spalla di chi saluta. "In questi casi" suggerisce lo psicologo "per mettersi sullo stesso piano e comunicare all'altro che non si vuole essere sopraffatti, bisogna provare a dare lo stesso tipo di stretta". Al contrario, chi è insicuro dà una stretta di mano floscia indicativa proprio di una debolezza caratteriale o di una certa sfuggevolezza. "Queste persone porgono solo la punta delle dita perché hanno anche una scarsa fiducia nell'altro e tendono a sfuggire" prosegue l'esperto che sottolinea come molto dipenda anche dalla persona a cui si stringe la mano. Ma qual è la stretta di mano "migliore"? "Quella decisa che denota sicurezza ma se la mano viene stretta eccessivamente è sintomo di aggressività e un po' di esibizionismo".                                      
 di Irma D'Aria (24 ottobre 2012)  Repubblica

domenica 25 novembre 2012

La mia New York di corsa

di Federico D’Ascoli giornalista e collaboratore di Correre e La Nazione
“The last one, the last one. You get it, you get it” ti grida una ragazza bionda che ti batte anche il cinque. “E’ l’ultimo, ce la fai”, ripetuto due volte. La Quinta Strada, nella parte che costeggia Central Park è un continuo falso piano, chilometri e chilometri di salita leggera. Uno strazio per i muscoli, con l’acido lattico che te lo ricorderà, puntuale, per almeno un paio di giorni successivi. La gente, ai bordi della strada, continua ad incitarti senza risparmio come ha fatto nei precedenti quaranta chilometri. Sei all’ultimo miglio prima dell'arrivo, un chilometro e seicento metri prima che la “tua” maratona di New York si concluda, con una medaglia. Pensi che hai corso tanto che non ce la fai più, ma pensi anche che piuttosto che fermarti potresti correre un'altra ora con questo ritmo: è una bella consolazione pensare che ti mancano appena nove minuti. D’altra parte non ti ricordi neppure perché una mattina ti sei svegliato e hai detto: voglio fare la maratona, la maratona di New York. E’ successo e basta, era gennaio: da allora ti sei allenato da solo e con serietà. Quattro volte alla settimana con il freddo dell’inverno, il sole timido della primavera, il caldo terrificante di agosto, chilometri da macinare prima di andare al lavoro. I sogni aiutano a vivere meglio, ma senza impegno quotidiano diventano incubi. L’arrivo a New York era stato affascinante, il fuso orario ti aveva permesso di apprezzare i particolari di una città straordinaria che si risveglia: i primi bar che aprono, i runner che affollano Central Park, le strade larghe senza il caos del traffico. Belle cose che non dimenticherai mai, ma la testa era già lì, a quei 42.195 metri, 26,2 miglia secondo la misurazione anglosassone. Per un attimo ti confondi con il lento percorso di avvicinamento ad una partita importante, una sensazione che pensavi ti avessero strappato di mano insieme al fischietto. E invece la vita ti sorprende perché il ritiro del pettorale al Javits Center, due giorni prima, è come l’arrivo di una designazione. Ora, dopo tanta preparazione, tocca a te, solo a te. Due allenamenti di gruppo con gli altri italiani (tra cui l’ex ciclista Davide Cassani e l’ex presidente del Bologna Alfredo Cazzola) e siamo già al briefing della vigilia con due campioni come Giacomo Leone, l’ultimo italiano ad averla conquistata nel 1996 e Laura Fogli che per cinque volte è arrivata sul podio senza la gioia di una vittoria. Consigli, precauzioni, una ricognizione mentale di quello che ti aspetta il giorno dopo. Con il monito di non farsi prendere dall’entusiasmo perché 42 chilometri sono tanti e il percorso non è poi così semplice come sembra. “La cosa che non vi hanno detto è che New York è tutta in salita”: sembra una battuta che solo il giorno dopo non ti fa per niente ridere. Sarà una gara maledettamente straordinaria. Avverbio e aggettivo non sono buttati lì a caso, perché fatica e felicità si mescolano. Lo comprendi quando ti dicono che lì al briefing c’è un ottantenne italiano che partecipa alla sua ventesima maratona di New York. Lo guardi negli occhi e noti una luce che ti sorprende, è la tua stessa voglia di essere già alla partenza. Di giocartela. Solo qualcosa di davvero magico può fare quell’effetto dopo tante maratone.
La sveglia della domenica mattina suona quando fuori è ancora buio. L’appuntamento con il pullman per Staten Island è alle 5.45, si fa colazione e poi ci si veste. Con Simone, l’amico aretino che la correrà con te, hai scelto un completo quasi uguale: tutto nero con il nome sul petto e il tricolore. Foto con fidanzate, mogli e figli e poi a bordo del torpedone. Alle 6.20, dopo aver superato il maestoso ponte da Verrazzano sei già nella base militare che ti ospiterà fino alle 10.20, orario fissato per la partenza della terza ondata, la tua. Quattro ore di attesa: ci sono gruppi che suonano, alle 8.30 c’è la messa e soprattutto tanta roba per fare colazione, caffè caldo, pastine, frutta, barrette energetiche. Il freddo e il vento pungono ma grazie a Simone, dopo aver vagato per un’oretta buona, trovi un po’ di riparo al volante di uno dei camion Ups che sono fermi e che porteranno le borse con i “panni” dalla partenza all’arrivo. Non si potrebbe, ma non siete italiani per caso...


La tua ora è arrivata, ai blocchi di partenza c’è il marasma, anche se l’organizzazione è certosina. Con Simone, che partirà da un altro blocco, ti abbracci e ti saluti con un “ti voglio bene” che segna l’importanza emotiva del momento tra due amici che rimangono di rigorosi e irremovibili gusti eterosessuali. Ci siamo: l’altoparlante spara “New York” di Liza Minnelli prima del colpo di cannone. Via. Sul ponte c’è un silenzio quasi surreale, tutti attenti a prendere il ritmo giusto, senza esagerare. La festa vera inizia quando finisce il primo miglio, dopo il “Verrazano-Narrows” come lo chiamano gli americani. Sei già entrato a Brooklyn, il quartiere popolare e popoloso della Grande Mela. La gente ti accoglie come a casa: “Welcome to Brooklyn” è la prima cosa che ti ricordi, gridata da una bambina nera, o abbronzata, come direbbe il nostro presidente del consiglio. Ti avevano detto che la gente ti dà una spinta particolare, ma finché non lo vedi, e non lo senti, non ci credi. C’è una marea di gente che continuamente grida il tuo nome stampato sulla maglia, che ti dice “forza Italia” (chissà contento il suddetto presidente del consiglio). Capisci subito chi è anglosassone perché ti dice “go, Fidi” e chi ha origini latine che ti dice “go, Fede”. Ci sono bambini che ti battono il cinque, famiglie intere che ti regalano banane, lecca-lecca, bustine di zucchero. Tante piccole band musicali che suonano e cantano le canzoni “giuste”: la colonna sonora di Rocky ti sembra un cardiotonico. Un incitamento incessante, tanto che a volte preferisci allontanarti dal pubblico per evitare di correre troppo veloce sulle ali dell’eccessivo entusiasmo. Passa così metà della maratona, tutta dentro Brooklyn. Ti dici che tutti gli anni dovrai tornare, che una sensazione così non te la puoi più perdere. Perché non sai ancora cosa ti aspetta. Passa anche il Queens dove le strade si fanno più strette e i rifornimenti diventano una piccola battaglia tutti contro tutti. Sei già al terzo ponte, quello che porta a Manhattan. Senza pubblico e sotto il livello della strada, la salita non sembra finire mai, il silenzio domina. Perché adesso, dopo 23-24 chilometri la fatica comincia a fare capolino. Ma ti basta pensare che di lì a poco vedrai la tua famiglia per allungare il passo e superare il Queensboro bridge. L’appuntamento è sulla First Avenue, in corrispondenza del sedicesimo miglio. Per vedersi loro sventoleranno una bandiera dell’Arezzo. Scorgi il cavallino rampante oltre le transenne, loro gridano, li superi e poi ti fermi e torni indietro per un bacio. Sono lì al gelo da ore solo per te: ti vengono i brividi, ma non di freddo. Ora sai bene che, con l’energia che ti ha regalato questo momento, arriveresti in fondo anche alla 100 chilometri del Passatore, la corsa in montagna da Firenze a Faenza. Ma questa Prima Strada non finisce mai, è il primo dei grandi falsi piani della corsa. Sei chilometri abbondanti, dove la gente, nonostante la distanza e le transenne si fa sentire comunque. E ora quello che prima ti dava fastidio diventa un bisogno, bisogno di gente che ti dica forza, ce la fai. E non rimani deluso.
Penultimo ponte, entri nel famigerato Bronx. I grattacieli di vetro e acciaio diventano case basse e un po’ sgarrupate, ma in vita tua hai avuto la ventura di fischiare ad Acerra, Terzigno e Aversa, il degrado urbano non ti stupisce più. Sei vicino al “muro” come si dice in gergo, la soglia dei 35-36 chilometri oltre la quale finiscono le scorte di glicogeno nel tuo organismo: se non ti sei allenato bene a consumare anche una quota di grassi, oltre agli zuccheri, ti blocchi e riesci soltanto a camminare. “Punch the wall” leggi in uno dei tanti cartelli che la gente mostra a bordo strada: ma sì, buttalo giù il muro. The last bridge, entri ad Harlem, l’estrema punta a nord di Manhattan. La corsa diventa una sfida con te stesso, i chilometri sono sempre meno, ma la fatica diventa opprimente, i muscoli ti chiedono pietà, si induriscono. E la leggera salita non ti aiuta per niente. Tre miglia, due miglia, l’ultimo miglio. La ragazza bionda ti ha appena incitato a non mollare e ora stai per entrare dentro Central Park. Superi gente come piovesse: chi è partito troppo forte adesso paga dazio. Il saliscendi d’asfalto dentro il polmone verde della città è un piccolo supplizio che affronti solo pensando che ora davvero sei ad un passo dal traguardo. Miglio numero 26, sono gli ultimi 340 metri, un giro di pista scarso. Arrivi con le braccia al cielo, 4 ore, 5 minuti, 37 secondi. Poteva andarti meglio, ma poteva anche andarti peggio. Arrivederci New York, non è finita qui.

domenica 11 novembre 2012

ENERGIA + EMPATIA = LEADERSHIP AL QUADRATO

Spesso sentiamo dire che un imprenditore, un manager o un politico hanno carisma o che una persona è un leader naturale.
Perché li riconosciamo tali?
E’ difficile rispondere a questa domande in modo razionale, molto è frutto di sensazioni che non riusciamo a spiegare, tutti noi abbiamo una naturale propensione a farci un’idea immediata degli altri semplicemente osservandoli e ascoltandoli.
E’ una competenza che il nostro cervello ha acquisito migliaia di anni fa, quando ancora la parola non esisteva ed occorreva riconoscere gli interlocutori amici dai potenziali nemici interpretando il loro linguaggio del corpo, a quei tempi un’esitazione o un errore poteva costare la vita.

Il successo del leader non è solo frutto di competenze specifiche in un determinato settore ma è direttamente proporzionale alla sua capacità di trasmettere messaggi ed emozioni, sia all’interno che all’esterno del gruppo e non solo utilizzando le parole ma soprattutto servendosi di altri linguaggi.
Gli esperti di comunicazione sostengono che il 60% dei messaggi passa attraverso il linguaggio del corpo - pensiamo a quanto sono importanti le espressioni facciali, i gesti, la postura - il 30% dal linguaggio è paraverbale vale a dire il tono ed il ritmo della voce e solo il 10% riguarda le nostre parole.

Alla luce di ciò che abbiamo appena letto, come possiamo allenare la nostra leadership migliorando i risultati e favorendo il team building?
Ci sono due componenti che meritano un’attenta riflessione e che possiamo osservare e sentire:
“l’Energia e l’Empatia”.

Il dizionario della lingua italiana definisce l’energia come il momento dell’atto operativo; uso attivo della forza; la potenza dell'organismo; l’aumento dell'azione vitale di una parte del corpo. La parola deriva dal greco ἐνέργεια (energheia), termine usato da Aristotele nel senso di azione efficace, composta da en, particella intensiva, ed ergon, capacità di agire.
Il leader energico viene percepito come forte, potente, concreto e vitale.
Il suo linguaggio del corpo è solido, fermo, proteso verso l’ascoltatore, il volume della sua voce è alto ed il ritmo sostenuto.
L’energia è la capacità del leader di penetrare nel mondo, di scuotere e di accendere l’entusiasmo nelle persone che lo ascoltano e che lo seguono, possiamo rappresentare il capo energico come un condottiero che combatte insieme alle sue truppe, marcia in testa, da l’esempio e si espone in prima persona.
Spesso diventa il parafulmine delle tensioni che investono il team dall’esterno, difende i suoi collaboratori e li protegge dai timori che potrebbero spaventarli o demotivarli eccessivamente.
E’ molto focalizzato sull’obiettivo e sul risultato, anche le sfide più estreme sembrano facilmente alla sua portata.
Se il leader è troppo sbilanciato verso l’energia è spesso un accentratore incapace di fidarsi degli altri ed è costretto ad esercitare un controllo opprimente e demotivante.
È convinto che la realtà che vede sia l’unica possibile, con il risultato di radicalizzare la comunicazione rischiando pericolosi scontri frontali.
Il clima che si respira all’interno del team sarà probabilmente ricco di tensioni ed esageratamente competitivo ed individualista, anche la creatività risulta castrata, con uno scarso afflusso di informazioni ed idee dal basso verso l’alto.
Il sentimenti dominanti nell’équipe sono la paura e l’infelicità, le persone non agiscono perché motivate ma perché temono le conseguenze personali negative.
Ne risulta una conduzione autoritaria e manipolatoria che può avere successo per brevi momenti di crisi ma che, se protratta per molto tempo procura infelicità, ansia e ribellione.

Il dizionario ci suggerisce che l’Empatia è la capacità di comprendere appieno lo stato d'animo altrui, sia che si tratti di gioia, che di dolore. La parola deriva dal greco "εμπαθεία" (empatéia, a sua volta composta da en-, "dentro", e pathos, "sofferenza o sentimento) sentire dentro, sentire come l’altro sente.
Il leader empatico viene percepito come elegante, armonico nei movimenti, costante, attrattivo ed equilibrato.
Il suo linguaggio del corpo è aperto e accogliente, il suo tono è caldo e pacato ed il ritmo regolare, quasi ipnotico.
Sa ascoltare empaticamente e mettersi nei panni del suo interlocutore comprendendo i suoi sentimenti e le sue necessità più profonde.
E’ sensibile e sa interpretare gli stati d’animo dei singoli e delle collettività trasformandoli in visioni positive per un futuro del quale tutti vorrebbero essere protagonisti ed edificatori.
Fa leva sui sentimenti e converte la visione in carburante per la motivazione, ogni compito diventa una causa, ogni azione si trasforma in un atto eroico, ogni obiettivo diventa un sogno.
Ha una naturale propensione ad attrarre a se i talenti migliori, costruendo un team leale che si alimenta di sentimenti positivi, diventando modello per il mercato ed i concorrenti.
Condivide le scelte e le decisioni facendo sentire le persone parte di un tutto, stimola la creatività e le idee innovative.
Se prevale l’empatia il leader è certamente amato e compreso ma non da sicurezza, risulta timido ed incerto nella difesa del gruppo e dei suoi ideali e dopo qualche tempo perde la stima dei collaboratori.
Il clima che si respira all’interno del team è spesso eccessivamente rilassato ed i tempi rischiano di dilatarsi oltre il possibile.
Le persone ne parlano come un ottimo coordinatore, una brava persona ma non come un capo al quale affidarsi, non lo riconoscono un leader dal quale ci si aspetta sintesi efficaci del pensiero del gruppo e decisioni rapide nei momenti difficili.
Il rischio principale è quello della ricerca da parte dei componenti della squadra di un leader naturale che sappia difendere (anche in modo errato) i loro diritti con conseguente perdita di potere e confusione dei ruoli.

Osserviamo la nostra modalità gestionale, se siamo eccessivamente sbilanciati sull’energia proviamo ad ascoltare di più, a sorridere, a delegare alcuni compiti e a condividere maggiormente i progetti.
Se siamo squilibrati verso l’empatia proviamo a decidere con maggiore autonomia, dire qualche volta no e definire obiettivi e tempi più concreti.

Saper dosare in egual misura Energia ed Empatia è il primo passo per diventare dei Leader ancora più autorevoli, riconosciuti e seguiti, capi che sanno far nascere negli altri il desiderio di far parte di una società alla quale tutti vorrebbero appartenere.

Antonio Zanaboni
Trainer e Coach

sabato 20 ottobre 2012

Felix Baumgartner - Un volo record da 39.000 metri - Video Ufficiale

Felix è il primo uomo a superare la barriera del suono senza alcun velivolo toccando i 1.137 km/h dopo essersi lanciato da 39.043 metri.


"A volte bisogna andare molto in alto per capire quanto siamo piccoli"
Felix Baumgartner

domenica 14 ottobre 2012

LA CRISI SECONDO EINSTEIN

Albert Einstein 1879 - 1955

Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose.
La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi. La creatività nasce dall'angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. E' nella crisi che sorge l'inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera sé stesso senza essere 'superato'.
Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà, violenta il suo stesso talento e dà più valore ai problemi che alle soluzioni. La vera crisi, è la crisi dell'incompetenza. L' inconveniente delle persone e delle nazioni è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie di uscita. Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia. Senza crisi non c'è merito. E' nella crisi che emerge il meglio di ognuno, perché senza crisi tutti i venti sono solo lievi brezze. Parlare di crisi significa incrementarla, e tacere nella crisi è esaltare il conformismo. Invece, lavoriamo duro. Finiamola una volta per tutte con l'unica crisi pericolosa, che è la tragedia di non voler lottare per superarla."

venerdì 14 settembre 2012

Ripartire

 
Ripartire
Quando è iniziato il ritorno?
Forse quando ho abbracciato con gli occhi la porta del faro di Fisterra, calpestando come i pellegrini fanno da mille anni gli ultimi scogli della terra conosciuta, quello è stato l’inizio del rientro nella realtà.
Due parole riecheggiavano nel cielo della Galizia portate dal vento della storia: “Fin del Camino”.
Il rientro durato qualche giorno è stato pigro ed ovattato per dare al vissuto l’occasione di depositare e lavorare in profondità.
La profondità è una costante del Cammino, le  emozioni cosi come i timori di quel pezzo di vita sono profondi;  la stanchezza lo è, subdola e pesante; anche le relazioni con gli altri lo sono, già intime  dopo poche ore e immenso è il rapporto con la natura.
Tutto  sprofonda in un abisso che non pensavo tanto vasto e riemerge come lava di un vulcano, improvvisa, potente e lenta livella tutto ciò che trova.
Alla fine mi ritrovo in uno stato di consapevolezza che riempie.
 
Tornare da un’esperienza cosi imponente è un momento speciale e delicato, parlarne è mettersi a nudo. C’è un passato recente che ancora fa svolazzare le farfalle nella pancia, c’è un velo di tristezza per una cosa che so non potrà ripetersi, c’è la velocità del mondo alla quale mi ero disabituato camminando per un mese intero a poco più di 3 chilometri l’ora e poi ci sono le persone che trovo, che sapevano o che hanno saputo di quei 912 chilometri fatti passo dopo passo.
Quando le incontro mi chiedono perché e come, ma sono domande alle quali non riesco a rispondere. Potrei sempre cavarmela con le parole del mio amico francese Jean Paul dicendo “Perché no?”.  Potrei dire che la mia vita è quella cosa lì, lasciare le certezze e farsi invadere dai dubbi, lasciare le comodità e arrangiarmi con il poco oppure che amo pensare al mio limite e tentare di superarlo, ma poi lascio perdere e rispondo semplicemente che mi piace esplorare e scoprire.
Parole brevi pronunciate nella speranza che chi le ascolta possa leggere nei miei occhi almeno un piccolo frammento delle enormi emozioni che ho vissuto in quei giorni, che mi hanno inondato e cambiato, augurandomi che quella luce possa illuminare anche loro e fargli perdere l’indecisione nell’affrontare  esperienze pure e totalizzanti, trovando da qualche parte il coraggio per dire che si può fare,  che si può correre il rischio, che non si deve rimandare oltre.
 
Al rientro il mio volto è stato per una decina di giorni la testimonianza dell’accaduto con quella barba folta che mai avevo avuto, segno tangibile, tatuaggio di un’esperienza che occorre avere il coraggio di testimoniare per dare speranza e dimostrare che i limiti sono solo dentro di noi e si nutrono dei nostri dubbi e delle nostre paure.
Quando agiamo trasformando i nostri  “mi piacerebbe fare” in “ora faccio” tutto diventa possibile e ci accorgiamo che camminare per 900 chilometri è la cosa più naturale del mondo, si tratta solo di mettere un piede davanti all’atro come gli uomini fanno dalla notte dei tempi.
Lasciare le certezze e imboccare strade nuove e sconosciute ci rimette in contatto con le nostre potenzialità e ci trasforma in persone migliori che sono in grado di dare agli altri speranza e felicità creando quella spirale virtuosa che include e si espande nel mondo.
 
Sono tornato, ed è già ora di ripartire.
 
Cammino di Santiago, Agosto Duemilaedodici                                                        AZ

martedì 4 settembre 2012


Non ci sono parole per descrivere l'enorme emozione che ho provato inginocchiandomi per baciare il lastricato secolare della Cattedrale di Santiago de Compostela dopo aver camminato 818km in 26 giorni.

Dal 26 luglio al 26 agosto 2012 ho percorso a piedi i 910 KM che separano San Jean Peid de Port da Fisterra lungo il CAMMINO DI SANTIAGO DE COPOSTELA in Spagna, è stata un esperienza straordinaria, unica, totalizzate.

mercoledì 11 luglio 2012

Ogni tanto tenta di vivere e basta.
Vivi semplicemente.
Non lottare e non forzare la vita.
Osserva in silenzio ciò che accade.
Lascia accadere ciò che accade.
Permetti a ciò che è, di esistere.
Lascia cadere ogni tensione e lascia che la vita fluisca, che accada.
E ciò che accade, te lo garantisco, libera.
Osho

giovedì 14 giugno 2012

Perrchè leggo

Io leggo perché ho preso il vizio. Io leggo perché non ho altro da fare. Io leggo perché siamo in pochi. Io leggo perché ho tempo. Io leggo poco perché non ne ho. Io vorrei leggere di più. Io te lo leggo negli occhi. Io leggo Braille, che non è un autore francese. Io leggo veloce. Io leggo a voce alta. Io leggo perché non mi piace alzare la voce. Io leggo per addormentarmi. Io leggo per sognare. Io leggo al contrario. Io leggo le carte. Io le divoro. Io rileggo. Io leggo tutto d’un fiato. Io leggo anche i bugiardini dei medicinali. Io leggo che è un piacere. Io leggo in piedi, a letto, in tram, in sala d’attesa, in ascensore, a tavola, alcesso. Io leggo e annoto, sottolineo, segno. Io leggo di nascosto. Io leggo per fare dispetto. Io leggo perché scrivo. Io scrivo perché leggo. Io leggo perché cresco. Io leggo perché questo mondo non mi piace. Io leggo per cambiarlo. Io leggo per evadere. Io leggo perché sono vivo. Io sono vivo perché leggo. Io leggo quando c’è una storia. Io guardo le figure. Io salto le pagine. Io leggo perché mi faccio un’opinione. Io leggo perché un’opinione ce l’ho già. Io leggo nel pensiero, negli occhi, nel futuro. Io leggo e mi innamoro, io leggo per sedurre, io leggo per saperne di più degli altri. Io leggo e qualche volta rido, qualche volta piango. Io leggo e ci penso su. Io leggo e approvo. Qualche volta no. Io leggo perché c’è chi vorrebbe proibirlo. Io leggo perché almeno imparo qualcosa. Io leggo perché non mi costa niente. Io leggo perché mi diverto, perché mi rilasso, perché mi sfogo. Io leggo quel che mi pare perché mi piace. Io leggo perché sento che mi fa bene. Io leggo punto e basta. Io vado al Circolo dei Lettori.

martedì 10 aprile 2012

Quanto è multitasking il tuo cervello?

“Arrivo tra 5 minuti”, dico al cellulare mentre controllo l’orologio del cruscotto... e guardo se il semaforo è diventato verde… e mi accendo in un dibattito sulla precarietà professionale con la mia amica seduta di fianco... Questo quadretto automobilistico, che tenta di descrivere la capacità di portare a termine più azioni contemporaneamente, è definito in gergo moderno “multitasking”.

Il multitasking è una chance in più per sopravvivere ai fuochi incrociati dell’informazione a cui siamo quotidianamente soggetti. In realtà, il quadretto di apertura dell’articolo andrebbe tradotto come comportamento “incosciente” nella lingua universale. L’autore afferma che concentrazione e tranquillità danno i risultati migliori nella performance di guida, indipendentemente dalle capacità di multitasking del lettore. Risultati pubblicati ogni giorno dalla rivista internazionale The Good Sense (Il Buon Senso).

Ma possiamo concludere diversi compiti contemporaneamente e in modo efficiente come quando si fa una cosa alla volta? Il nostro cervello è davvero in grado di farlo? Qui sotto verranno riassunti tre studi pubblicati dalle riviste internazionali Sience e Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS). Alla fine della lettura, confidiamo che i lettori rientreranno dalle ferie più coscienti delle proprie capacità, messe in crisi dalla frenesia dell’era multimediale.

Il cervello ha solo due mani

La parte del cervello chiamata in causa oggi è la corteccia prefrontale, riposta dietro alla nostra fronte. La parte anteriore crea l’idea e la dice alla parte posteriore, che la esegue. Grazie alla corteccia prefrontale siamo in grado di portare a termine i compiti richiesti, anche se più azioni vengono richieste nello stesso momento. Ma il cervello ha un trucco per essere multitasking: fa uso di una particolare memoria, definita “memoria di lavoro”, che è in grado di analizzare e conservare l’informazione legata ad un compito per un certo periodo di tempo.

La memoria di lavoro è alla base delle nostre capacità intellettive, dal ragionamento all’apprendimento, fino alla memorizzazione di un indirizzo da scrivere poi su una cartolina. Grazie alla memoria di lavoro, il nostro cervello mette in attesa un compito iniziato da poco per svolgere un’altra attività più urgente, per poi ritornarci su una volta libero.

I ricercatori Sylvain Charron ed Etienne Koechlin, dell’agenzia di ricerca biomedica Inserm di Parigi, hanno misurato con la risonanza magnetica per immagini (fMRI) l’attività del cervello durante esercizi di esecuzione di più azioni simultanee e hanno scoperto che siamo in grado di svolgere correttamente solo due azioni alla volta.

I 32 partecipanti a questo studio, uomini e donne di età tra 19 e 32 anni, hanno eseguito in due parti un complicato test di abbinamento. Una parola, ad esempio giostra, veniva scomposta a caso in lettere (maiuscole o minuscole) mostrate al computer. I soggetti dovevano identificare le coppie di lettere che compaiono nello stesso ordine in cui erano sistemate nella parola stessa (“os” è corretto, “so” è sbagliato). Nel frattempo, per osservare cosa accade nel cervello durante il fenomeno di multitasking, i partecipanti dovevano categorizzare le lettere apparse sullo schermo come maiuscole e minuscole.

La fMRI ha dimostrato come funziona il multitasking. Mentre i partecipanti identificano la coppia di lettere corretta, entrambi le parti del loro cervello vengono attivate in risposta al compito. Quando viene aggiunta la richiesta di categorizzazione data dal secondo esercizio, il cervello si divide letteralmente in due, e ciascun lato risponde a un solo compito.

Da qui si potrebbe dedurre che il cervello sia in grado di portare a termine correttamente solo due compiti alla volta. Se si aggiunge un terzo compito, come identificare il colore dato alle lettere che compaiono sullo schermo, i partecipanti triplicano gli errori commessi quando il test richiedeva solo due esercizi, o addirittura induce a dimenticare uno tra i compiti richiesti.

Siamo sicuri che diventare multitasker sia la soluzione giusta?

“Più ce n’è peggio è”. La psicologa Eyal Ophir dell’Università di Stanford a Palo Alto, in California ha osservato il comportamento di soggetti dichiarati multitaskers in una gara di abilità dimostrativa. I soggetti sono stati suddivisi in base a quante volte utilizzavano simultaneamente televisione, video, telefonini e giochi al computer, in due gruppi definiti “grandi media multitaskers” e “light media multitaskers”. Entrambi i gruppi hanno misurato la loro capacità di percepire informazioni rilevanti dall’ambiente circostante, scartare l’irrilevante e la velocità con cui abilmente passano da un test di abilità a un altro. Tutti i soggetti dovevano identificare al computer il cambiamento di forma di un rettangolo rosso, ma non del vicino rettangolo blu. Un secondo test presentava coppie di lettere e numeri che i partecipanti dovevano alternativamente etichettare come pari o dispari, vocali o consonanti.

I grandi multitaskers hanno mostrato i risultati peggiori: più facili alla distrazione, scarsa distinzione tra le informazioni necessarie e quelle di poca importanza per la riuscita del test. “Sono i peggiori ad ogni compito di controllo cognitivo necessario al multitasking”, conclude il sociologo Clifford Nass co-autore dello studio. Insomma, sembra che si sia bravi multitaskers soltanto se alla fine ci si dedica ad una cosa per volta. Forse quello che ci rende capaci di molteplici azioni è l’ottimizzazione del tempo trascorso tra un compito assolto e il successivo?

Più anni hai, meno multitasking sei

La capacità del cervello di non farsi distrarre da informazioni inutili diminuisce con l’età, compromettendo la memoria di lavoro e a possibilità di svolgere più compiti contemporaneamente. Questo è quanto afferma uno studio recentemente condotto dai ricercatori del Dipartimento di Neurologia, Psichiatria e Fisiologia presso la Fondazione W.M.Keck per le Neuroscienze Integrative dell’Università di California, San Francisco.

La memoria di lavoro nasce dalla connessione tra una particolare area della corteccia prefrontale, il giro frontale mediale destro (MFG), e l’area paraippocampale (PPA), che seleziona le scene che devono essere ricordate. Wesley Clapp e colleghi hanno osservato come cambiano queste connessioni in soggetti giovani, con età media di 24,5 anni, e in soggetti di circa 69 anni mentre eseguivano un test di memoria visiva che richiedeva capacità di multitasking. I partecipanti dovevano osservare al computer uno scenario naturale e tenerlo in memoria 14,4 secondi. Durante questi pochi secondi, la loro attenzione veniva distolta dall’apparizione di un volto, di cui dovevano determinare sesso ed età. Subito dopo, veniva loro chiesto di richiamare alla memoria lo scenario iniziale. L’attività del cervello durante le fasi del test veniva osservata con la fMRI.

Quando venivano interrotti, tutti i partecipanti spostavano l’attività cerebrale dall’area MFG-PPA ad un’altra parte deputata a processare le informazioni provenienti dal volto. Passati i 14,4 secondi, il cervello dei giovani soggetti ritornava più rapidamente a lavorare nell’area della memoria di lavoro e distoglieva l’attenzione dal volto. I soggetti anziani, di contro, continuavano ad elaborare le informazioni causate dall’interruzione e riattivavano la via MFG-PPA con minore efficienza.

“Questi risultati indicano che i deficit di scambio tra le reti funzionali del cervello sono alla base dell’impatto del multitasking sulla memoria di lavoro nelle persone anziane”, conclude il Prof. Gazzaley, coautore dello studio e direttore della Fondazione.

Tu quanto sei multitasker?

Appurato che è meglio fare una cosa per volta, e che ora avete dati scientifici alla mano per difendervi dal capo, siete curiosi di vedere quanto siete multitasker? Seguite i link qui sotto, leggete attentamente le istruzioni e provate ad eseguire test (simili a quelli utilizzati dagli studi citati nell’articolo). Buon divertimento.

Alessandra Gilardini
Biologa, Ph.D. in Neuroscienze

Referenze:

Wesley C. Clapp, Michael T. Rubens, Jasdeep Sabharwal, Adam Gazzaley. Deficit in switching between functional brain networks underlies the impact of multitasking on working memory in older adults. Proceedings of the National Academy of Sciences, 2011; 108(17):7212-7.
Charron S, Koechlin E. Divided representation of concurrent goals in the human frontal lobes. Science. 2010 Apr 16;328(5976):360-3.
Ophir E, Nass C, Wagner AD. Cognitive control in media multitaskers. Proceedings of the National Academy of Science. 2009 Sep 15;106(37):15583-7. Epub 2009 Aug 24.
Test di abilità sul multitasking

martedì 21 febbraio 2012

SCIMMIE E CREDENZE

In oriente, catturano le scimmie con un semplice artifizio.
Si servono di un cesto con una piccola fessura e poi ci mettono dentro un frutto.
Poi, legano il cesto ad un palo. La scimmia arriva, mette la zampa dentro il cesto e afferra il frutto. Chiudendo la mano e stringendo saldamente il suo premio,la mano diventa troppo grossa per uscire dalla fessura.
Allora gli uomini arrivano e la catturano....
Resta intrappolata dalle sue stesse credenze.
Non c'è nient'altro che la trattiene.
Potrebbe andare via facilmente se lasciasse andare il frutto.
Ma non mollerà la presa. Ciò che la intrappola è un pensiero, se lascio andare perderò qualcosa.
Questo stesso concetto intrappola anche noi. in alcuni momenti, sentiamo che se lasciamo andare cio' che abbiamo - il nostro sè limitato - perderemo qualcosa.
Così alcune volte ci aggrappiamo saldamente alla nostra identità o ego, e restiamo intrappolati.
Se lasciamo la presa, e questo ci fa paura perchè non sappiamo cosa ci aspetta, saremo liberi.


mercoledì 8 febbraio 2012

La nostra piu grande paura - Marianne Willamson




La nostra paura piu’ profonda non e’ quella di essere inadeguati.
La nostra paura piu’ grande e’ di essere potenti al di la’ di ogni misura.
E’ la nostra luce e non il nostro buio cio’ che ci spaventa.
Ci domandiamo: Chi sono io per essere brillante, magnifico, pieno di talento, favoloso?
In realta’, chi sei tu per non esserlo?
Tu sei un figlio dell’Universo.
Il tuo giocare a sminuirti non serve al mondo.
Non c’e’ nulla di illuminato nel rimpicciolirsi in modo che gli altri non si sentano insicuri intorno a noi.
Noi siamo fatti per risplendere come fanno i bambini.
Noi siamo fatti per rendere manifesta la gloria dell’universo che e’ in noi: non solo in alcuni di noi, ma in ognuno di noi.
E quando permettiamo alla nostra luce di risplendere, noi, inconsciamente, diamo alle altre persone il permesso di fare la stessa cosa.
Quando ci liberiamo dalle nostre paure, la nostra presenza automaticamente libera gli altri.
Poesia di - Marianne Williamson -
resa famosa da - Nelson Mandela -

giovedì 19 gennaio 2012

LETTORI FISSI