domenica 25 novembre 2012

La mia New York di corsa

di Federico D’Ascoli giornalista e collaboratore di Correre e La Nazione
“The last one, the last one. You get it, you get it” ti grida una ragazza bionda che ti batte anche il cinque. “E’ l’ultimo, ce la fai”, ripetuto due volte. La Quinta Strada, nella parte che costeggia Central Park è un continuo falso piano, chilometri e chilometri di salita leggera. Uno strazio per i muscoli, con l’acido lattico che te lo ricorderà, puntuale, per almeno un paio di giorni successivi. La gente, ai bordi della strada, continua ad incitarti senza risparmio come ha fatto nei precedenti quaranta chilometri. Sei all’ultimo miglio prima dell'arrivo, un chilometro e seicento metri prima che la “tua” maratona di New York si concluda, con una medaglia. Pensi che hai corso tanto che non ce la fai più, ma pensi anche che piuttosto che fermarti potresti correre un'altra ora con questo ritmo: è una bella consolazione pensare che ti mancano appena nove minuti. D’altra parte non ti ricordi neppure perché una mattina ti sei svegliato e hai detto: voglio fare la maratona, la maratona di New York. E’ successo e basta, era gennaio: da allora ti sei allenato da solo e con serietà. Quattro volte alla settimana con il freddo dell’inverno, il sole timido della primavera, il caldo terrificante di agosto, chilometri da macinare prima di andare al lavoro. I sogni aiutano a vivere meglio, ma senza impegno quotidiano diventano incubi. L’arrivo a New York era stato affascinante, il fuso orario ti aveva permesso di apprezzare i particolari di una città straordinaria che si risveglia: i primi bar che aprono, i runner che affollano Central Park, le strade larghe senza il caos del traffico. Belle cose che non dimenticherai mai, ma la testa era già lì, a quei 42.195 metri, 26,2 miglia secondo la misurazione anglosassone. Per un attimo ti confondi con il lento percorso di avvicinamento ad una partita importante, una sensazione che pensavi ti avessero strappato di mano insieme al fischietto. E invece la vita ti sorprende perché il ritiro del pettorale al Javits Center, due giorni prima, è come l’arrivo di una designazione. Ora, dopo tanta preparazione, tocca a te, solo a te. Due allenamenti di gruppo con gli altri italiani (tra cui l’ex ciclista Davide Cassani e l’ex presidente del Bologna Alfredo Cazzola) e siamo già al briefing della vigilia con due campioni come Giacomo Leone, l’ultimo italiano ad averla conquistata nel 1996 e Laura Fogli che per cinque volte è arrivata sul podio senza la gioia di una vittoria. Consigli, precauzioni, una ricognizione mentale di quello che ti aspetta il giorno dopo. Con il monito di non farsi prendere dall’entusiasmo perché 42 chilometri sono tanti e il percorso non è poi così semplice come sembra. “La cosa che non vi hanno detto è che New York è tutta in salita”: sembra una battuta che solo il giorno dopo non ti fa per niente ridere. Sarà una gara maledettamente straordinaria. Avverbio e aggettivo non sono buttati lì a caso, perché fatica e felicità si mescolano. Lo comprendi quando ti dicono che lì al briefing c’è un ottantenne italiano che partecipa alla sua ventesima maratona di New York. Lo guardi negli occhi e noti una luce che ti sorprende, è la tua stessa voglia di essere già alla partenza. Di giocartela. Solo qualcosa di davvero magico può fare quell’effetto dopo tante maratone.
La sveglia della domenica mattina suona quando fuori è ancora buio. L’appuntamento con il pullman per Staten Island è alle 5.45, si fa colazione e poi ci si veste. Con Simone, l’amico aretino che la correrà con te, hai scelto un completo quasi uguale: tutto nero con il nome sul petto e il tricolore. Foto con fidanzate, mogli e figli e poi a bordo del torpedone. Alle 6.20, dopo aver superato il maestoso ponte da Verrazzano sei già nella base militare che ti ospiterà fino alle 10.20, orario fissato per la partenza della terza ondata, la tua. Quattro ore di attesa: ci sono gruppi che suonano, alle 8.30 c’è la messa e soprattutto tanta roba per fare colazione, caffè caldo, pastine, frutta, barrette energetiche. Il freddo e il vento pungono ma grazie a Simone, dopo aver vagato per un’oretta buona, trovi un po’ di riparo al volante di uno dei camion Ups che sono fermi e che porteranno le borse con i “panni” dalla partenza all’arrivo. Non si potrebbe, ma non siete italiani per caso...


La tua ora è arrivata, ai blocchi di partenza c’è il marasma, anche se l’organizzazione è certosina. Con Simone, che partirà da un altro blocco, ti abbracci e ti saluti con un “ti voglio bene” che segna l’importanza emotiva del momento tra due amici che rimangono di rigorosi e irremovibili gusti eterosessuali. Ci siamo: l’altoparlante spara “New York” di Liza Minnelli prima del colpo di cannone. Via. Sul ponte c’è un silenzio quasi surreale, tutti attenti a prendere il ritmo giusto, senza esagerare. La festa vera inizia quando finisce il primo miglio, dopo il “Verrazano-Narrows” come lo chiamano gli americani. Sei già entrato a Brooklyn, il quartiere popolare e popoloso della Grande Mela. La gente ti accoglie come a casa: “Welcome to Brooklyn” è la prima cosa che ti ricordi, gridata da una bambina nera, o abbronzata, come direbbe il nostro presidente del consiglio. Ti avevano detto che la gente ti dà una spinta particolare, ma finché non lo vedi, e non lo senti, non ci credi. C’è una marea di gente che continuamente grida il tuo nome stampato sulla maglia, che ti dice “forza Italia” (chissà contento il suddetto presidente del consiglio). Capisci subito chi è anglosassone perché ti dice “go, Fidi” e chi ha origini latine che ti dice “go, Fede”. Ci sono bambini che ti battono il cinque, famiglie intere che ti regalano banane, lecca-lecca, bustine di zucchero. Tante piccole band musicali che suonano e cantano le canzoni “giuste”: la colonna sonora di Rocky ti sembra un cardiotonico. Un incitamento incessante, tanto che a volte preferisci allontanarti dal pubblico per evitare di correre troppo veloce sulle ali dell’eccessivo entusiasmo. Passa così metà della maratona, tutta dentro Brooklyn. Ti dici che tutti gli anni dovrai tornare, che una sensazione così non te la puoi più perdere. Perché non sai ancora cosa ti aspetta. Passa anche il Queens dove le strade si fanno più strette e i rifornimenti diventano una piccola battaglia tutti contro tutti. Sei già al terzo ponte, quello che porta a Manhattan. Senza pubblico e sotto il livello della strada, la salita non sembra finire mai, il silenzio domina. Perché adesso, dopo 23-24 chilometri la fatica comincia a fare capolino. Ma ti basta pensare che di lì a poco vedrai la tua famiglia per allungare il passo e superare il Queensboro bridge. L’appuntamento è sulla First Avenue, in corrispondenza del sedicesimo miglio. Per vedersi loro sventoleranno una bandiera dell’Arezzo. Scorgi il cavallino rampante oltre le transenne, loro gridano, li superi e poi ti fermi e torni indietro per un bacio. Sono lì al gelo da ore solo per te: ti vengono i brividi, ma non di freddo. Ora sai bene che, con l’energia che ti ha regalato questo momento, arriveresti in fondo anche alla 100 chilometri del Passatore, la corsa in montagna da Firenze a Faenza. Ma questa Prima Strada non finisce mai, è il primo dei grandi falsi piani della corsa. Sei chilometri abbondanti, dove la gente, nonostante la distanza e le transenne si fa sentire comunque. E ora quello che prima ti dava fastidio diventa un bisogno, bisogno di gente che ti dica forza, ce la fai. E non rimani deluso.
Penultimo ponte, entri nel famigerato Bronx. I grattacieli di vetro e acciaio diventano case basse e un po’ sgarrupate, ma in vita tua hai avuto la ventura di fischiare ad Acerra, Terzigno e Aversa, il degrado urbano non ti stupisce più. Sei vicino al “muro” come si dice in gergo, la soglia dei 35-36 chilometri oltre la quale finiscono le scorte di glicogeno nel tuo organismo: se non ti sei allenato bene a consumare anche una quota di grassi, oltre agli zuccheri, ti blocchi e riesci soltanto a camminare. “Punch the wall” leggi in uno dei tanti cartelli che la gente mostra a bordo strada: ma sì, buttalo giù il muro. The last bridge, entri ad Harlem, l’estrema punta a nord di Manhattan. La corsa diventa una sfida con te stesso, i chilometri sono sempre meno, ma la fatica diventa opprimente, i muscoli ti chiedono pietà, si induriscono. E la leggera salita non ti aiuta per niente. Tre miglia, due miglia, l’ultimo miglio. La ragazza bionda ti ha appena incitato a non mollare e ora stai per entrare dentro Central Park. Superi gente come piovesse: chi è partito troppo forte adesso paga dazio. Il saliscendi d’asfalto dentro il polmone verde della città è un piccolo supplizio che affronti solo pensando che ora davvero sei ad un passo dal traguardo. Miglio numero 26, sono gli ultimi 340 metri, un giro di pista scarso. Arrivi con le braccia al cielo, 4 ore, 5 minuti, 37 secondi. Poteva andarti meglio, ma poteva anche andarti peggio. Arrivederci New York, non è finita qui.

domenica 11 novembre 2012

ENERGIA + EMPATIA = LEADERSHIP AL QUADRATO

Spesso sentiamo dire che un imprenditore, un manager o un politico hanno carisma o che una persona è un leader naturale.
Perché li riconosciamo tali?
E’ difficile rispondere a questa domande in modo razionale, molto è frutto di sensazioni che non riusciamo a spiegare, tutti noi abbiamo una naturale propensione a farci un’idea immediata degli altri semplicemente osservandoli e ascoltandoli.
E’ una competenza che il nostro cervello ha acquisito migliaia di anni fa, quando ancora la parola non esisteva ed occorreva riconoscere gli interlocutori amici dai potenziali nemici interpretando il loro linguaggio del corpo, a quei tempi un’esitazione o un errore poteva costare la vita.

Il successo del leader non è solo frutto di competenze specifiche in un determinato settore ma è direttamente proporzionale alla sua capacità di trasmettere messaggi ed emozioni, sia all’interno che all’esterno del gruppo e non solo utilizzando le parole ma soprattutto servendosi di altri linguaggi.
Gli esperti di comunicazione sostengono che il 60% dei messaggi passa attraverso il linguaggio del corpo - pensiamo a quanto sono importanti le espressioni facciali, i gesti, la postura - il 30% dal linguaggio è paraverbale vale a dire il tono ed il ritmo della voce e solo il 10% riguarda le nostre parole.

Alla luce di ciò che abbiamo appena letto, come possiamo allenare la nostra leadership migliorando i risultati e favorendo il team building?
Ci sono due componenti che meritano un’attenta riflessione e che possiamo osservare e sentire:
“l’Energia e l’Empatia”.

Il dizionario della lingua italiana definisce l’energia come il momento dell’atto operativo; uso attivo della forza; la potenza dell'organismo; l’aumento dell'azione vitale di una parte del corpo. La parola deriva dal greco ἐνέργεια (energheia), termine usato da Aristotele nel senso di azione efficace, composta da en, particella intensiva, ed ergon, capacità di agire.
Il leader energico viene percepito come forte, potente, concreto e vitale.
Il suo linguaggio del corpo è solido, fermo, proteso verso l’ascoltatore, il volume della sua voce è alto ed il ritmo sostenuto.
L’energia è la capacità del leader di penetrare nel mondo, di scuotere e di accendere l’entusiasmo nelle persone che lo ascoltano e che lo seguono, possiamo rappresentare il capo energico come un condottiero che combatte insieme alle sue truppe, marcia in testa, da l’esempio e si espone in prima persona.
Spesso diventa il parafulmine delle tensioni che investono il team dall’esterno, difende i suoi collaboratori e li protegge dai timori che potrebbero spaventarli o demotivarli eccessivamente.
E’ molto focalizzato sull’obiettivo e sul risultato, anche le sfide più estreme sembrano facilmente alla sua portata.
Se il leader è troppo sbilanciato verso l’energia è spesso un accentratore incapace di fidarsi degli altri ed è costretto ad esercitare un controllo opprimente e demotivante.
È convinto che la realtà che vede sia l’unica possibile, con il risultato di radicalizzare la comunicazione rischiando pericolosi scontri frontali.
Il clima che si respira all’interno del team sarà probabilmente ricco di tensioni ed esageratamente competitivo ed individualista, anche la creatività risulta castrata, con uno scarso afflusso di informazioni ed idee dal basso verso l’alto.
Il sentimenti dominanti nell’équipe sono la paura e l’infelicità, le persone non agiscono perché motivate ma perché temono le conseguenze personali negative.
Ne risulta una conduzione autoritaria e manipolatoria che può avere successo per brevi momenti di crisi ma che, se protratta per molto tempo procura infelicità, ansia e ribellione.

Il dizionario ci suggerisce che l’Empatia è la capacità di comprendere appieno lo stato d'animo altrui, sia che si tratti di gioia, che di dolore. La parola deriva dal greco "εμπαθεία" (empatéia, a sua volta composta da en-, "dentro", e pathos, "sofferenza o sentimento) sentire dentro, sentire come l’altro sente.
Il leader empatico viene percepito come elegante, armonico nei movimenti, costante, attrattivo ed equilibrato.
Il suo linguaggio del corpo è aperto e accogliente, il suo tono è caldo e pacato ed il ritmo regolare, quasi ipnotico.
Sa ascoltare empaticamente e mettersi nei panni del suo interlocutore comprendendo i suoi sentimenti e le sue necessità più profonde.
E’ sensibile e sa interpretare gli stati d’animo dei singoli e delle collettività trasformandoli in visioni positive per un futuro del quale tutti vorrebbero essere protagonisti ed edificatori.
Fa leva sui sentimenti e converte la visione in carburante per la motivazione, ogni compito diventa una causa, ogni azione si trasforma in un atto eroico, ogni obiettivo diventa un sogno.
Ha una naturale propensione ad attrarre a se i talenti migliori, costruendo un team leale che si alimenta di sentimenti positivi, diventando modello per il mercato ed i concorrenti.
Condivide le scelte e le decisioni facendo sentire le persone parte di un tutto, stimola la creatività e le idee innovative.
Se prevale l’empatia il leader è certamente amato e compreso ma non da sicurezza, risulta timido ed incerto nella difesa del gruppo e dei suoi ideali e dopo qualche tempo perde la stima dei collaboratori.
Il clima che si respira all’interno del team è spesso eccessivamente rilassato ed i tempi rischiano di dilatarsi oltre il possibile.
Le persone ne parlano come un ottimo coordinatore, una brava persona ma non come un capo al quale affidarsi, non lo riconoscono un leader dal quale ci si aspetta sintesi efficaci del pensiero del gruppo e decisioni rapide nei momenti difficili.
Il rischio principale è quello della ricerca da parte dei componenti della squadra di un leader naturale che sappia difendere (anche in modo errato) i loro diritti con conseguente perdita di potere e confusione dei ruoli.

Osserviamo la nostra modalità gestionale, se siamo eccessivamente sbilanciati sull’energia proviamo ad ascoltare di più, a sorridere, a delegare alcuni compiti e a condividere maggiormente i progetti.
Se siamo squilibrati verso l’empatia proviamo a decidere con maggiore autonomia, dire qualche volta no e definire obiettivi e tempi più concreti.

Saper dosare in egual misura Energia ed Empatia è il primo passo per diventare dei Leader ancora più autorevoli, riconosciuti e seguiti, capi che sanno far nascere negli altri il desiderio di far parte di una società alla quale tutti vorrebbero appartenere.

Antonio Zanaboni
Trainer e Coach

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