di Federico D’Ascoli giornalista e collaboratore di Correre e La Nazione
La sveglia della domenica mattina suona quando fuori è ancora buio. L’appuntamento con il pullman per Staten Island è alle 5.45, si fa colazione e poi ci si veste. Con Simone, l’amico aretino che la correrà con te, hai scelto un completo quasi uguale: tutto nero con il nome sul petto e il tricolore. Foto con fidanzate, mogli e figli e poi a bordo del torpedone. Alle 6.20, dopo aver superato il maestoso ponte da Verrazzano sei già nella base militare che ti ospiterà fino alle 10.20, orario fissato per la partenza della terza ondata, la tua. Quattro ore di attesa: ci sono gruppi che suonano, alle 8.30 c’è la messa e soprattutto tanta roba per fare colazione, caffè caldo, pastine, frutta, barrette energetiche. Il freddo e il vento pungono ma grazie a Simone, dopo aver vagato per un’oretta buona, trovi un po’ di riparo al volante di uno dei camion Ups che sono fermi e che porteranno le borse con i “panni” dalla partenza all’arrivo. Non si potrebbe, ma non siete italiani per caso...
La tua ora è arrivata, ai blocchi di partenza c’è il marasma, anche se l’organizzazione è certosina. Con Simone, che partirà da un altro blocco, ti abbracci e ti saluti con un “ti voglio bene” che segna l’importanza emotiva del momento tra due amici che rimangono di rigorosi e irremovibili gusti eterosessuali. Ci siamo: l’altoparlante spara “New York” di Liza Minnelli prima del colpo di cannone. Via. Sul ponte c’è un silenzio quasi surreale, tutti attenti a prendere il ritmo giusto, senza esagerare. La festa vera inizia quando finisce il primo miglio, dopo il “Verrazano-Narrows” come lo chiamano gli americani. Sei già entrato a Brooklyn, il quartiere popolare e popoloso della Grande Mela. La gente ti accoglie come a casa: “Welcome to Brooklyn” è la prima cosa che ti ricordi, gridata da una bambina nera, o abbronzata, come direbbe il nostro presidente del consiglio. Ti avevano detto che la gente ti dà una spinta particolare, ma finché non lo vedi, e non lo senti, non ci credi. C’è una marea di gente che continuamente grida il tuo nome stampato sulla maglia, che ti dice “forza Italia” (chissà contento il suddetto presidente del consiglio). Capisci subito chi è anglosassone perché ti dice “go, Fidi” e chi ha origini latine che ti dice “go, Fede”. Ci sono bambini che ti battono il cinque, famiglie intere che ti regalano banane, lecca-lecca, bustine di zucchero. Tante piccole band musicali che suonano e cantano le canzoni “giuste”: la colonna sonora di Rocky ti sembra un cardiotonico. Un incitamento incessante, tanto che a volte preferisci allontanarti dal pubblico per evitare di correre troppo veloce sulle ali dell’eccessivo entusiasmo. Passa così metà della maratona, tutta dentro Brooklyn. Ti dici che tutti gli anni dovrai tornare, che una sensazione così non te la puoi più perdere. Perché non sai ancora cosa ti aspetta. Passa anche il Queens dove le strade si fanno più strette e i rifornimenti diventano una piccola battaglia tutti contro tutti. Sei già al terzo ponte, quello che porta a Manhattan. Senza pubblico e sotto il livello della strada, la salita non sembra finire mai, il silenzio domina. Perché adesso, dopo 23-24 chilometri la fatica comincia a fare capolino. Ma ti basta pensare che di lì a poco vedrai la tua famiglia per allungare il passo e superare il Queensboro bridge. L’appuntamento è sulla First Avenue, in corrispondenza del sedicesimo miglio. Per vedersi loro sventoleranno una bandiera dell’Arezzo. Scorgi il cavallino rampante oltre le transenne, loro gridano, li superi e poi ti fermi e torni indietro per un bacio. Sono lì al gelo da ore solo per te: ti vengono i brividi, ma non di freddo. Ora sai bene che, con l’energia che ti ha regalato questo momento, arriveresti in fondo anche alla 100 chilometri del Passatore, la corsa in montagna da Firenze a Faenza. Ma questa Prima Strada non finisce mai, è il primo dei grandi falsi piani della corsa. Sei chilometri abbondanti, dove la gente, nonostante la distanza e le transenne si fa sentire comunque. E ora quello che prima ti dava fastidio diventa un bisogno, bisogno di gente che ti dica forza, ce la fai. E non rimani deluso.
Penultimo ponte, entri nel famigerato Bronx. I grattacieli di vetro e acciaio diventano case basse e un po’ sgarrupate, ma in vita tua hai avuto la ventura di fischiare ad Acerra, Terzigno e Aversa, il degrado urbano non ti stupisce più. Sei vicino al “muro” come si dice in gergo, la soglia dei 35-36 chilometri oltre la quale finiscono le scorte di glicogeno nel tuo organismo: se non ti sei allenato bene a consumare anche una quota di grassi, oltre agli zuccheri, ti blocchi e riesci soltanto a camminare. “Punch the wall” leggi in uno dei tanti cartelli che la gente mostra a bordo strada: ma sì, buttalo giù il muro. The last bridge, entri ad Harlem, l’estrema punta a nord di Manhattan. La corsa diventa una sfida con te stesso, i chilometri sono sempre meno, ma la fatica diventa opprimente, i muscoli ti chiedono pietà, si induriscono. E la leggera salita non ti aiuta per niente. Tre miglia, due miglia, l’ultimo miglio. La ragazza bionda ti ha appena incitato a non mollare e ora stai per entrare dentro Central Park. Superi gente come piovesse: chi è partito troppo forte adesso paga dazio. Il saliscendi d’asfalto dentro il polmone verde della città è un piccolo supplizio che affronti solo pensando che ora davvero sei ad un passo dal traguardo. Miglio numero 26, sono gli ultimi 340 metri, un giro di pista scarso. Arrivi con le braccia al cielo, 4 ore, 5 minuti, 37 secondi. Poteva andarti meglio, ma poteva anche andarti peggio. Arrivederci New York, non è finita qui.
Penultimo ponte, entri nel famigerato Bronx. I grattacieli di vetro e acciaio diventano case basse e un po’ sgarrupate, ma in vita tua hai avuto la ventura di fischiare ad Acerra, Terzigno e Aversa, il degrado urbano non ti stupisce più. Sei vicino al “muro” come si dice in gergo, la soglia dei 35-36 chilometri oltre la quale finiscono le scorte di glicogeno nel tuo organismo: se non ti sei allenato bene a consumare anche una quota di grassi, oltre agli zuccheri, ti blocchi e riesci soltanto a camminare. “Punch the wall” leggi in uno dei tanti cartelli che la gente mostra a bordo strada: ma sì, buttalo giù il muro. The last bridge, entri ad Harlem, l’estrema punta a nord di Manhattan. La corsa diventa una sfida con te stesso, i chilometri sono sempre meno, ma la fatica diventa opprimente, i muscoli ti chiedono pietà, si induriscono. E la leggera salita non ti aiuta per niente. Tre miglia, due miglia, l’ultimo miglio. La ragazza bionda ti ha appena incitato a non mollare e ora stai per entrare dentro Central Park. Superi gente come piovesse: chi è partito troppo forte adesso paga dazio. Il saliscendi d’asfalto dentro il polmone verde della città è un piccolo supplizio che affronti solo pensando che ora davvero sei ad un passo dal traguardo. Miglio numero 26, sono gli ultimi 340 metri, un giro di pista scarso. Arrivi con le braccia al cielo, 4 ore, 5 minuti, 37 secondi. Poteva andarti meglio, ma poteva anche andarti peggio. Arrivederci New York, non è finita qui.
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